Atrio Monumentale – ASP ITIS, via Pascoli 31, Trieste
8 febbraio – 22 marzo (orario di apertura: tutti i giorni dalle 14 alle 19)
Inaugurazione: sabato 8 febbraio 2020, ore 17.30
Le stampe delle fotografie sono state realizzate con tecnica fine art giclée.
Quest’ultimo lavoro (2019) di Mario Sillani Djerrahian, origine armena e residente a Trieste, richiama nel titolo, come in un gioco di specchi, una serie della fine degli anni Novanta: Dove comincia il paesaggio (1998). I due elementi che disegnano idealmente l’arco di questi vent’anni sono dunque il tempo e il paesaggio. Una sorta di circolarità che si rinnova ogni volta che viene osservato quanto vi è intorno. Per Sillani l’intorno è sempre la natura, non quella antropizzata, ma quella priva di presenze umane del Carso. La fotografia, perché questo è il mezzo preferito dall’artista, è utilizzata in maniera particolarissima, per questa ragione sarebbe improprio definire Sillani un fotografo, essendo egli, fin dagli inizi della sua ricerca fra gli anni 60/70, un artista visivo che privilegia questo mezzo utilizzandolo in una maniera molto lontana da ogni senso di reportage, sensibile invece ad un approccio concettuale. Le immagini dell’artista triestino sono sempre concepite e realizzate su un registro che tiene insieme la riflessione sulle peculiarità del fotografico, per proporre una visione della natura che oscilla fra il dettaglio della scabrosità di una pietra erosa dagli eventi atmosferici e, come nel caso di questi ultimi lavori, un microcosmo di ghiaccio, neve, roccia. Una fotografia accurata, ravvicinata, e allo stesso tempo, per le caratteristiche dei soggetti ripresi, ai limiti dell’informale. Le stesse modalità di esposizione delle immagini costituiscono delle vere e proprie installazioni di più elementi sia a parete che, non di rado, nello spazio. La fine del tempo però apre a un’ulteriore possibilità di lettura dell’opera dell’artista triestino, figura storica della sperimentazione videofotografica. Una possibilità data dall’essere quest’ultima serie di lavori in esplicita relazione con la musica, liberamente ispirandosi alla composizione Quatuor pour la fin du temps di Olivier Messiaen, concepita e realizzata durante la sua detenzione in un lager nazista, dove è stata eseguita con la collaborazione di altri valenti musicisti, prigionieri di guerra ivi detenuti. La composizione di Messiaen, e così le immagini di Sillani, sono pervase da un senso di trattenuta, quanto intensa, sacralità. L’intero lavoro di Sillani si struttura come una sorta di partitura visiva del paesaggio. Come ha scritto l’artista a proposito di questa sua ultima serie, modificando lievemente un pensiero del compositore: “Una fotografia che culla e che canta, che è il nuovo sangue, un gesto eloquente, un profumo sconosciuto, un uccello senza riposo; una musica del paesaggio carsico, un vortice di colori complementari, un arcobaleno di cose che esistono”.
Riccardo Caldura